DANNO DA INFEZIONE NOSOCOMIALE: CRITERIO PER STABILIRE LA RESPONSABILITA’ TRA I DUE SOGGETTI COINVOLTI E ONERE DELLA PROVA TRA LE PARTI
La Corte di Cassazione con la pronuncia odierna, sentenza del 7 settembre 2023 n. 26091, ha affermato ancora una volta che, in presenza di danni derivanti da un’emotrasfusione, è la struttura a dover dimostrare di aver rispettato le procedure e i protocolli relativi all’acquisizione e alla perfusione del plasma e che il paziente, al momento della trasfusione, fosse già infetto.
Quando si parla di danni da emotrasfusione le parti coinvolte sono due: la struttura presso la quale avviene il contagio del paziente tramite il sangue infetto e il soggetto danneggiato, che, agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno subito.
Nel caso di specie, una donna si sottoponeva ad un intervento chirurgico presso una struttura sanitaria e necessitava di una trasfusione di sangue.
A distanza di un anno dall’operazione le veniva diagnosticata l’epatite C – contratta in seguito all’infusione effettuata presso l’ospedale – e, per questo motivo, citava in giudizio l’Azienda Sanitaria per chiedere il risarcimento del danno subito da emotrasfusione.
Il Tribunale accoglieva la domanda della signora e riteneva l’ospedale responsabile per quanto successo.
L’azienda sanitaria si opponeva alla sentenza emessa in primo grado e proponeva appello.
In questo grado di giudizio, però, la situazione veniva ribaltata e la domanda della paziente veniva respinta, poiché – secondo il collegio giudicante – la struttura sanitaria aveva seguito le linee guida per quanto riguarda l’acquisizione del plasma.
La donna si opponeva alla sentenza e proponeva ricorso in Cassazione.
Secondo la Suprema Corte, la Corte Territoriale nel ribaltare totalmente il giudizio di primo grado aveva commesso alcuni errori poiché aveva invertito l’onere della prova (il paziente doveva solamente allegare l’insorgenza di una nuova malattia e non dimostrare che la struttura sanitaria avesse rispettato le linee guida e i protocolli per l’acquisizione e la conservazione del plasma); mentre l’ospedale aveva solamente affermato di aver seguito le leges artis e non aver prodotto alcuna documentazione a sostegno della propria tesi.
Secondo gli ermellini quindi non solo non doveva essere la paziente a dimostrare di essere “sana”, non infetta al momento della trasfusione; ma la Corte Territoriale non aveva nemmeno verificato se la procedura adottata dall’ospedale fosse conforme a quella prevista dalla normativa in caso di acquisizione e profusione del plasma.
È utile ricordare, anche, che il Ministero della Salute ha un obbligo di controllo e vigilanza così da evitare l’uso di sangue infetto e quando viene meno a tale obbligo, il soggetto interessato può far valere il proprio diritto, tramite la domanda di risarcimento del danno, nei confronti del Ministero facendo valere la responsabilità extracontrattuale o nei confronti della struttura ospedaliera facendo valere la responsabilità contrattuale.
Nel caso di specie, la donna aveva citato in giudizio l’ospedale, affermando di aver subito un danno (epatite C) a causa della condotta dei sanitari e quindi si era rivalsa nei confronti della struttura ospedaliera in virtù della responsabilità contrattuale.
Dott. Luigi Pinò