LA RESPONSABILITA’ DEI MEDICI E DELLA STRUTTURA SANITARIA È ESCLUSA NEL CASO DI INTERVENTO SENZA LA POSSIBILITA’ DI RICORRERE ALLA TERAPIA INTENSIVA, SE IL PAZIENTE VIENE INFORMATO ED È CONSAPEVOLE DEL RISCHIO CHE POTREBBE DERIVARE DA QUESTA LACUNA
La Corte di Cassazione con l’ordinanza 7 ottobre 2024 n. 26180, si è pronunciata su un caso di responsabilità medica in seguito al decesso di un paziente che, dopo aver ricevuto la diagnosi di neoplasia a livello intestinale, era stato sottoposto ad un intervento per risolvere la problematica riscontrata e le cui condizioni cliniche sono man mano peggiorate tanto da comportarne il decesso.
La vittima, anche se all’interno della casa di cura non era presente un’unità di terapia intensiva, decideva di farsi operare ugualmente accettando il rischio. 
Per di più era stato altresì rassicurato dai sanitari che gli avevano garantito che qualora fosse stato necessario lo avrebbero immediatamente trasferito presso l’ospedale di Formia dove, al contrario, era presente il reparto di rianimazione.
Dunque, la struttura sanitaria, nonostante la lacuna sopradetta, veniva autorizzata dal paziente ad effettuare l’operazione chirurgica in quanto garantiva il tempestivo trasferimento in un ospedale attrezzato se si fosse presentata la necessità di dover ricorrere alla terapia intensiva.
Le condizioni cliniche del soggetto, dopo l’intervento – correttamente eseguito – erano apparse critiche e veniva immediatamente trasferito presso l’ospedale di Formia, poiché al suo interno era presente l’unità di terapia intensiva. 
Ma qui, pur manifestando chiari segni di setticemia, veniva trascurato per alcuni giorni, sino a quando non diventò troppo tardi e venne trasferito in una ulteriore struttura dove però moriva.
I familiari della vittima citavano in giudizio la società, a cui faceva capo la casa di cura, per chiedere il risarcimento dei danni in seguito alla condotta dei medici chirurghi che avevano operato il loro caro, sostenendo che l’intervento chirurgico non avrebbe dovuto essere condotto dal momento che il nosocomio era sprovvisto della rianimazione.
Il Tribunale adito disponeva una consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale veniva esclusa la responsabilità dei sanitari poiché l’intervento era stato effettuato correttamente e dalla casa di cura, in caso di necessità, era già previsto il trasferimento del paziente in un ospedale più attrezzato (ospedale di Formia) contenente la sala di rianimazione.
In realtà, dalla CTU era emerso che erano stati proprio i sanitari dell’ospedale di Formia a sottovalutare la situazione perché nonostante la presenza di alcuni sintomi che avrebbero dovuto far pensare ad un processo infettivo, hanno tenuto un atteggiamento gravemente attendista ed omissivo causando un inevitabile peggioramento clinico.
Questo comportamento negligente del nosocomio di Formia cagionava la dipartita del paziente.
Inoltre, la CTU ha dunque dimostrato che l’evento morte non era stato causato dalla mancanza della sala di rianimazione, ma dal comportamento negligente assunto dai sanitari del nosocomio di Formia.
Gli eredi incardinavano il giudizio di gravame.
La Corte territoriale ribaltava quanto stabilito nel grado di giudizio precedente e riconosceva la responsabilità in capo alla casa di cura per l’operato dei professionisti e la condannava al risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima, partendo dall’assunto secondo cui era stato imprudente effettuare l’operazione chirurgica in assenza di terapia intensiva.
    La società che era a capo della casa di cura proponeva ricorso in Cassazione.
Secondo gli ermellini, non era possibile considerare responsabile la struttura solo perché i medici avevano svolto l’operazione pur in assenza della sala di rianimazione poiché era stato espressamente il paziente ad autorizzare l’esecuzione dell’intervento chirurgico.
Per di più, il medesimo avendo lavorato presso quella casa di cura, sapeva che qualora fosse stato necessario sarebbe stato trasferito a Formia, come di fatto è avvenuto.
In virtù delle motivazioni sopradette, la casa di cura e i medici chirurghi non potevano essere ritenuti responsabili del decesso del paziente.

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